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Persone, lavoro e organizzazioni al tempo del Covid-19 e oltre

Il contributo specifico della psicologia del lavoro – Ciclo di interviste

In una fase storica particolarmente critica come quella attuale, ci è sembrato cruciale mantenere vivi e ‘del livello necessario’ il confronto e la discussione tra le diverse esperienze e visioni (del presente e del futuro) degli psicologi del lavoro che quotidianamente, sul campo, si trovano a dover affrontare una situazione inedita, incerta, indecifrabile, ‘impensabile’.

Abbiamo deciso di farlo parlandone tra noi, anche per comunicare all’esterno, con coloro che si trovano a dover affrontare lo stesso tipo di situazione ma a partire da una prospettiva, disciplinare e professionale, di tipo diverso (operatori sanitari ad esempio; oppure esperti di tecnologie; amministratori pubblici; economisti; statistici; etc).

La modalità con la quale abbiamo deciso di affrontare questo nuovo compito è quella di offrire a questa discussione e questo confronto il contributo del vissuto e della valutazione di alcuni colleghi psicologi del lavoro, collocati in posizioni professionali diverse e che hanno maturato esperienze diverse: nelle aziende, nella pubblica amministrazione, nelle società di consulenza, nelle agenzie di formazione, nell’università, negli istituti di ricerca.

Ritenendo di fare cosa utile (e coerente con il decalogo delle parole chiave con il quale abbiamo cercato di esprimere in modo un poco ‘divergente’ la mission della SIPLO) mettendo poi a disposizione di tutti sul sito dell’associazione il testo di queste interviste.

Ringraziamo particolarmente i nostri colleghi per la disponibilità che ci hanno manifestato, ed auspichiamo che il loro contributo possa generare nuovi interventi che saremo lieti di ospitare sul sito, ma anche e soprattutto nuovi pensieri e nuove azioni, per adesso e per il dopo.

La redazione SIPLO


Intervista 1 – Guido Sarchielli (Professore Emerito dell’Università di Bologna)

1. Pensando in particolare al mondo del lavoro, quali sono a suo avviso da un lato i rischi e dall’altro, eventualmente, le opportunità (per le persone e per le organizzazioni), che si manifestano in questa difficile fase, della quale nessuno è ancora in grado di prefigurare in modo attendibile la durata e le caratteristiche?

Di fronte a questa domanda si potrebbe cadere in generalizzazioni poco plausibili: da un lato, alcuni continuano a pensare solo in modo catastrofico (questo rischio biologico porterà a uno stato permanente di paura incontrollabile, a disagi mentali gravi o ad atti inconsulti come il suicidio), dall’altro lato,  alcuni tendono a sottovalutare la situazione o a diventare preda di un ‘ottimismo illusorio’ ritenendo che la cosiddetta Fase 2 sarà una cosa del tutto nuova, una sicura occasione di cambiamenti migliorativi personali e lavorativi.  Più prudentemente vorrei sottolineare l’esigenza di capire quanto gli esiti non certo positivi sulla popolazione imputabili all’esperienza della pandemia si trasferiscano e possano persistere anche nei contesti di lavoro.

Le ricerche psicologiche del passato su epidemie simili e le indagini che in varie parti del mondo (soprattutto in Cina) si stanno facendo ora sulla pandemia Covid-19 mostrano purtroppo la prevalenza (qui intesa in senso tecnico come proporzione di individui di una popolazione che, in un dato momento, presentano sintomi o effetti psicosociali) di rischi ed esiti negativi rispetto ad opportunità di cambiamento.

Sono evidenziati infatti segnali preoccupanti a livello individuale (irritabilità, insonnia, paure generalizzate o specifiche, tristezza, depressione e numerosi sintomi di ansia) connessi con la percezione di pericolosità diffusa, col sentirsi minacciati da qualcosa che non è identificabile e che potrebbe essere presente ovunque. Il rischio di disregolazione emotiva (dalla paura all’angoscia e al panico) pende come ‘spada di Damocle’. Anche a livello delle interazioni sociali le indagini recenti mostrano rischi di gravi disfunzioni. Emergono dubbi ingiustificati sulle indicazioni scientifiche per la protezione sociale e la prevenzione; ricorso al ‘pensiero magico’ e adesione acritica alle fake news; sfiducia sociale; sentimenti ostili verso gli altri ritenuti untori siano essi conoscenti, vicini di casa o colleghi; emarginazione pregiudiziale anche delle persone guarite, stigmatizzazione di gruppi minoritari (di stranieri e in particolare di emigranti).

Fortunatamente non si tratterà di effetti che si diffondono ‘a palla di neve’ interessando automaticamente tutti allo stesso modo e non sarebbe male cercare di costruire una sorta di termometro dello stato psico-sociale’ della popolazione mediante survey ad hoc promosse dagli psicologi. In ogni caso, accanto agli effetti di disagio su accennati, si possono immaginare alcune tendenze di coping costruttivo e di pro-attività:

  • A livello individuale qualcuno potrà resistere e gestire meglio la situazione scoprendo le sue doti di resilienza; qualcuno potrà essere stimolato a potenziare il proprio senso di responsabilità etica verso gli altri (adesione alle misure protettive);  qualcuno potrà cogliere l’occasione per riflettere sul senso delle cose che faceva (o che farà) e delineare nuove priorità; qualcuno potrà attivarsi per mettere al centro dei suoi progetti la salute e il benessere rispetto ad altri scopi utilitaristici e di gratificazione immediata; qualcuno potrà scegliere di potenziare parte delle sue competenze per affrontare meglio le criticità o aderire proattivamente a regole sociali condivise, ecc.  Sono tutti possibili esempi di come, nel trovarsi in mezzo al pericolo, possono essere intraviste strategie di rilancio non decise da ‘decreti esterni’ ma intese come opportunità di cambiamento personale.
  • Anche a livello collettivo potrebbero essere riconosciuti ambiti di azione potenzialmente migliorativi. Mi riferisco, ad esempio, a una più decisa attenzione verso: l’impegno personale nell’affrontare i problemi (riducendo la ricerca dipendenza assistenziale); l’assunzione di responsabilità nel cercare informazioni attendibili per superare convinzioni sbagliate sulla salute propria e degli altri e pregiudizi sulle diversità delle persone e dei gruppi sociali; l’equilibrio tra tempi di lavoro e tempi privati; la sostenibilità ambientale; il valore delle relazioni informali e dei legami sociali nei vari contesti di vita, le forme di solidarietà nei vari contesti comunitari, ecc.

Ma, come accennavo prima, si dovrebbe cercare di conoscere empiricamente se e quanto questi rischi, queste preoccupazioni ma anche queste potenzialità innovative entrano nei contesti lavorativi stimolando cambiamenti incisivi nei modi, nei tempi di lavoro, nelle relazioni infragruppo, coi capi, coi colleghi ecc. Penso che ciò sia molto probabile ma con differenze notevoli a seconda del settore (manifattura, servizi, agricoltura), del tipo di forza-lavoro, delle dimensioni aziendali. Dunque, per gli psicologi del lavoro e delle organizzazioni questo potrebbe diventare un compito conoscitivo concreto indispensabile per fornire poi un sostegno non generico alle persone e alle organizzazioni.


2. Tra i tanti e diversi tipi di problemi che le persone e le organizzazioni si trovano attualmente a dovere affrontare, quali sono a suo avviso quelli rispetto ai quali la psicologia del lavoro potrebbe fornire un contributo distintivo rilevante? Può indicarne almeno tre che considera prioritari? E in che modo potrebbe essere fornito dagli psicologi del lavoro tale contributo?

Fra i vari possibili sceglierei questi tre tipi di problemi:

  1. Il problema della sicurezza dovrebbe essere messo al centro dell’attenzione. Ovviamente un ambiente di lavoro sano e sicuro può migliorare il morale e l’impegno del personale, ridurre il turnover, arricchire le relazioni tra i dipendenti (con conseguente riduzione dei conflitti e dei reclami) e con i manager. Al riguardo, ci sono numerose prescrizioni comportamentali da rispettare per ridurre il rischio biologico (Vedi il Documento tecnico INAIL). Tuttavia, si dovrebbe parlare di più di ambiente ‘fisicamente e psicologicamente sicuro’. Ad esempio, sarebbe da riconoscere l’importanza della valutazione del rischio psicosociale imputabile alla minaccia pandemica ovvero diagnosticare con attenzione la gamma variabile di reazioni soggettive che contribuiscono a creare un ‘clima organizzativo di insicurezza’ (fonte assai probabile di errori nelle prestazioni, condotte individuali disadattive e atteggiamenti sociali di ostilità e stigmatizzazione). A questo riguardo gli psicologi del lavoro potrebbero offrire un intervento specifico di integrazione del tradizionale DVR con questo nuovo fattore di rischio psicosociale mediante strumenti veloci (anche informatici) e a basso costo per acquisire, a cadenza ravvicinata, informazioni su come viene sperimentato il rientro lavorativo e sui segnali precoci di incertezza, disagio, disadattamento, sopravvalutazione o più spesso sottovalutazione del pericolo almeno da parte di un buon numero di lavoratori.
  2. Un secondo problema concerne il modo con cui le azioni di prevenzione, i dispositivi protettivi e le regole di comportamento attivate possono essere effettivamente accettate e seguite nel tempo dai lavoratori (non è casuale la preoccupazione dei datori di lavoro rispetto a possibili contenziosi futuri in caso di contagio dal momento che, quando le persone col passar del tempo diventano desensibilizzate a un dato rischio, il rispetto delle regole preventive tende a diminuire). Si tratta di curare con attenzione l’implementazione degli interventi progettati per assicurare un ritorno efficiente dei lavoratori alle loro attività adattandoli alle caratteristiche specifiche del contesto, dei processi lavorativi di una data organizzazione e del tipo di lavoratori presenti. In altre parole, i cambiamenti fisici (distanziamento) e organizzativi come pure l’adozione di particolari dispositivi diagnostici (come il test anticorpale veloce) che in generale sono ritenuti validi acquisiscono una reale efficacia se sono ‘calibrati’ sulle persone ovvero adattati ai loro modi di sentire, pensare e agire e sui particolari ambienti ove tali persone lavorano. Ciò può implicare un ruolo importante degli psicologi del lavoro nel progettare ‘programmi di sicurezza partecipati’ e nell’attuare forme di comunicazione del rischio e di formazione degli atteggiamenti verso salute e benessere basate sul coinvolgimento cognitivo ed emotivo dei lavoratori e dei manager tramite momenti formali e informali di scambio, di riflessione collettiva, di rinforzo reciproco e di approvazione dell’impegno aggiuntivo dovuto al cambiamento delle condizioni di esecuzione delle prestazioni.
  3. Un terzo problema riguarda il come agevolare la ricostruzione di un rapporto significativo con il proprio lavoro interrotto dalla chiusura forzata (e con probabili effetti di demotivazione) acquisendo un livello di consapevolezza più elevato del valore della prudenza e delle precauzioni necessarie per lavorare in sicurezza. Qui il contributo degli psicologi del lavoro potrebbe tradursi: 1) in servizi di accompagnamento alle persone ovvero nella creazione di spazi di comunicazione e consultazione personale, forniti dall’organizzazione alle persone per favorire il rilancio del loro coinvolgimento sugli obiettivi produttivi comuni e potrebbero avere come prototipo operativo il counseling psicologico nelle sue varie forme anche a distanza; 2) in servizi di consulenza all’organizzazione per sostenere i nuovi processi aziendali o le nuove forme di organizzazione del lavoro e di gestione delle persone rese necessarie dalle richieste di sicurezza fisica e psicologica (ad esempio, rilevazioni sistematiche dei vari climi aziendali, valutazioni e riprogettazioni del lavoro del lavoro in presenza e a distanza, diversity management, adattamenti dei modelli di leadership, ecc.)

3. Se pensa al ‘dopo Coronavirus’, come lo immagina, con particolare riferimento al mondo del lavoro e delle organizzazioni: quali sono i principali cambiamenti che ritiene probabili?

Non è facile rispondere a questa domanda per due motivi: a) perché i cambiamenti organizzativi sensati raramente avvengono all’improvviso e dopo forzature esterne repentine e non ben padroneggiate dai vari attori sociali (manager, lavoratori e sindacati): b) perché molto dipenderà da interventi di natura politica che, per ora, sembrano indirizzati più su forme assistenziali che su investimenti produttivi di crescita economica e di occupazione. Posso comunque riferirmi a suggestioni presenti nella letteratura scientifica degli ultimi anni a proposito del futuro del lavoro sintetizzabili in tre grandi aree di flessibilità in cui la psicologia del lavoro, dell’organizzazione e delle risorse umane può giocare un ruolo significativo:

  • flessibilità nel rapporto di lavoro: aumento dei collaboratori esterni e consulenti e conseguenti modifiche del ‘contratto psicologico’; esigenze di coordinamento di lavori virtuali; aumento del peso del diversity management (si pensi all’ageing oltre che alle diversità etniche, di genere, ecc.); attenzione agli adattamenti promossi dai gestori delle risorse umane per coinvolgere la forza lavoro più giovane (diagnosi accurata degli atteggiamenti ed esigenze della generazione Y); crescita del desiderio di realizzare nel lavoro i propri valori e scopi e di selezionare potenziali datori di lavoro in base alle loro priorità di valore: ad esempio eco-sostenibilità, responsabilità sociale, equilibrio lavoro-vita privata, autonomia…
  • flessibilità nella programmazione del lavoro: passaggio da ‘monitoraggio sul tempo’ a ‘monitoraggio sul risultato’; creazione di una cultura organizzativa basata sul ‘lavoro positivo’ partecipativo e sul team building che richiede modelli di leadership distribuita, servant e team-oriented; ulteriore diffusione di una tecnologia pervasiva (interconnettività, digitalizzazione produzioni, sensori, ecc.) che dovrebbe portare a nuovi posti di lavoro di tipo professionale e manageriale ad alto tasso di relazionalità e capacità progettuale, non sostituibili dall’informatica e dall’intelligenza artificiale (con probabile distribuzione della forza lavoro in forma di clessidra:  High/Low skills con perdite nei lavori intermedi e possibile intensificazione delle condizioni di stress per i lavori marginali).
  • flessibilità circa dove e il quando il lavoro è compiuto: massiccio uso della tecnologia per la delocalizzazione; crescita dei gruppi virtuali (esigenza di nuove forme di interazione tra pari, di leadership e coordinamento, di regolazione del lavoro a distanza e in presenza); ricerca di nuove strategie di motivazione e coinvolgimento lavoratori; monitoraggio degli stili di apprendimento, delle forme di socializzazione dei lavoratori e di valutazione del lavoro svolto; flessibilità autogestita degli orari ed esigenze della vita personale (conciliazione lavoro-vita personale come una delle forme di responsabilità sociale dell’impresa); comprensione (ancora assai variabile) da parte delle imprese dei benefici soft legati al tempo di lavoro rispetto agli incentivi tradizionali.

4. Almeno fino ad ora, dal punto di vista della psicologia, che cosa le sembra insegni l’esperienza della pandemia, con particolare riferimento al mondo del lavoro (persone e organizzazioni)? Che cosa è a suo avviso possibile ed utile capitalizzare, come apprendimento per il futuro?

Mi limiterei a sottolineare solo due aspetti.

In primo luogo, la notevole attivazione degli psicologi (al di là delle loro specificazioni disciplinari e di scuola) nel dare un contributo concreto per gestire l’emergenza sociale pandemica (penso agli interventi nell’ambito della sanità e alla collaborazione spesso volontaria con la protezione civile). Ciò ha reso più evidente a un vasto pubblico l’interesse collettivo della psicologia, troppo spesso oscurato da un’immagine sociale privatistica e individualistica del lavoro psicologico inteso come strumento di riparazione individuale.

In secondo luogo, mi riferisco alle riflessioni e proposte in merito alla necessità di costruire ambienti di lavoro che assumano in modo più netto il tema della sicurezza, salute e benessere tra i criteri di base per impostare il loro normale funzionamento. Non si tratta solo di valutare i rischi dello stress lavorativo – come da tempo si stava facendo – ma di ricondurre al tema del benessere le analisi e le proposte di intervento sui numerosi fattori personali e contestuali che hanno un rilievo per l’efficacia, l’efficienza e produttività lavorativa (gli esempi sarebbero molti: dall’aging della forza lavoro, agli effetti delle nuove tecnologie sul modo di lavorare, sulle prestazioni/competenze, ai gruppi di lavoro virtuale (interazioni e leadership), allo smart working e ai suoi effetti personali e organizzativi, alle minacce incombenti di perdita del lavoro, ecc.).

Con la pandemia si è vissuta una spinta non prevista a valorizzare meglio le evidenze della ricerca scientifica (che negli ultimi anni sono state prodotte anche in Italia) finalizzandole in modo più esplicito alla soluzione dei problemi e al cambiamento delle molte cose che ancora non vanno nei contesti e nelle relazioni di lavoro. Mi pare che entrambi questi aspetti rappresentino un capitale da sviluppare ulteriormente e far conoscere di più senza ermetismi alla popolazione e alle aziende anche nel futuro.


5. Nell’ambito del patrimonio scientifico e professionale della psicologia del lavoro, che cosa le sembra destinato a permanere ‘particolarmente appropriato’ per il futuro (framework concettuali, approcci, modelli, metodologie, etc.)? E che cosa invece le sembra realisticamente destinato alla obsolescenza?

È una domanda quasi impossibile da affrontare e per me un tantino provocatoria perché aprirebbe la strada a un mare di critiche sulla persistenza di modelli obsoleti e tecniche mai validate (o viceversa di mode solo suggestive importate da qualche paese straniero) che ancora sono diffusi spesso da non psicologi e accettati come panacea innovativa in alcune organizzazioni. Si potrebbero fare molti esempi nel campo delle motivazioni, dell’apprendimento, dello sviluppo personale, del funzionamento dei gruppi della leadership. Tuttavia, non mi pare opportuno insistere sui tanti modi superficiali o ingenui di usare la psicologia (o meglio di abusare di alcune parole d’ordine della psicologia) che purtroppo rivelano una distanza notevole tra conoscenza e pratica quotidiana e che rappresentano la ‘moneta cattiva che scaccia quella buona’.

Segnalerei un po’ alla rinfusa solo alcune tendenze che ritengo particolarmente appropriate per il futuro della psicologia del lavoro, dell’organizzazione e delle risorse umane:

  1. l’assunzione di un orientamento meno ‘defettologico’ rispetto al passato nel senso che si propone non solo di diagnosticare i numerosi limiti nel funzionamento delle persone, nella vita organizzativa e nelle relazioni tra persone e lavoro ma di rendere evidenti e di valorizzare con dati di fatto le potenzialità presenti ai vari livelli per attuare un cambiamento sostenibile e migliorativo delle esperienze di lavoro.
  2. La promozione di approcci meno globali e unicisti rispetto alla comprensione degli antecedenti causali delle condotte lavorative ovvero più sensibili a cogliere il peso di numerosi fattori di modulazione ‒ personali e contestuali ‒ che influenzano le condotte finali concernenti, ad esempio, il tipo di lavoro svolto, le interazioni con i membri di un team, le comunicazioni interpersonali, la leadership e gli scambi con i supervisori, il clima psicosociale,  le caratteristiche di personalità, ecc.
  3. Una maggiore cura a bilanciare un’impostazione scientifica rigorosa (rilevanza per lo sviluppo della conoscenza) con le esigenze d’uso nella pratica professionale (rilevanza per le applicazioni rapide). Ciò riguarda ad esempio l’uso di metodi accurati per cogliere i cambiamenti del lavoro (compresi quelli promossi dagli stessi lavoratori con il job rafting) nella prospettiva progettuale di migliorare gli assetti organizzativi.
  4. La presenza, pur nel predominio di un paradigma positivista fondato su modelli, strumenti e tecniche quantitative, di un sostanziale riconoscimento del valore dei metodi qualitativi, meno strutturati e formalizzati ma utili per ricavare descrizioni approfondite di fenomeni poco conosciuti ma importanti per la vita lavorativa delle persone.
  5. L’interesse per il recupero anche approcci di natura qualitativo/clinica per servizi di consulenza alla persona (come il counseling individuale faccia a faccia o a distanza applicabile in varie fasi della consulenza di carriera).
  6. Un forte ampliamento dei contenuti tematizzati concettualmente e operativamente che ora riguardano la maggior parte dei problemi della vita organizzativa reale articolati nei tre grandi domini della WOP-Psychology (Work, Organization, Personnel Psychology). Essi rappresentano un corpus di conoscenze riconosciuto a livello internazionale e sono traducibili nell’offerta di servizi consulenziali apprezzabili da parte vari attori organizzativi o dalle parti interessate esterne all’organizzazione come i clienti e i responsabili delle politiche del lavoro.

6. Quali indicazioni si sentirebbe eventualmente di dare ad un/a giovane psicologo/a del lavoro che si affacci al mercato del lavoro in questa fase storica così particolare?

Darei questi pochi suggerimenti che a dire il vero avrei dato anche prima della pandemia:

  1. Superare l’idea, ancora presente nell’immaginario di gran parte degli psicologi, che operare nell’ambito del lavoro e delle organizzazioni sia un ‘modo residuale’ dell’agire professionale dello psicologo, mentre invece può rappresentare un contributo importante alla produzione della ricchezza collettiva promuovendo il miglioramento dei modi di lavorare e di organizzare il lavoro.
  2. Ricercare e rivendicare una specificità e identità professionale basate: 1) sul padroneggiare le evidenze scientifiche sul reale funzionamento cognitivo, affettivo e relazionale delle persone nei vari contesti; 2) sul progettare interventi sostenibili di carattere emancipatorio ovvero che facilitino le persone stesse nel loro sforzo di gestire autonomamente le situazioni e di emanciparsi da vincoli e ostacoli inappropriati. E ciò per lo psicologo presuppone l’assunzione consapevole di una prospettiva valoriale, di un’etica professionale in favore di chi ha minori risorse di autogestione e partecipazione attiva ai processi lavorativi e sociali. Presuppone anche una competenza disciplinare aggiornata associata a un’attenzione al fatto che i confini tra le discipline sono sempre più sfumati e che vi sono convergenze non solo tra le discipline cognitive e sociali ma anche con quelle informatiche e ingegneristiche che possono sostenere gli interventi psicologici nei contesti organizzativi. In questo senso, ritornano ad essere rilevanti la capacità di analizzare il lavoro (worker oriented) e la progettazione, sperimentazione e verifica di soluzioni innovative (penso, ad esempio, a come implementare lo smart-working assumendo il criterio del benessere). Da questo punto di vista vedo lo psicologo del lavoro come un designer che si sporca le mani nelle realtà produttive e non come ‘grillo parlante’ linguaggi suggestivi ma vacui.
  3. Impegnarsi affinché il modus operandi dello psicologo del lavoro manifesti la sua funzione principale di «consulente-esperto» che offre un valore aggiunto alla pari di altri tipi di consulenti di cui si avvalgono le organizzazioni. Ciò significa proporre non analisi astratte ma interventi concreti, misurabili nei loro benefici, basati sull’analisi accurata delle condizioni che, in una situazione data, possono facilitare l’aggiustamento o l’innovazione delle relazioni di lavoro, delle modalità di attuare le prestazioni, delle forme di coinvolgimento dei lavoratori, degli stili di comando, ecc. Il/la giovane psicologo/a del lavoro dovrebbe allora fare tesoro della sua creatività, della personal agility, dell’adattabilità e continuare a potenziare la sua capacità di fornire risposte calibrate sui bisogni ma verificate in base alle evidenze scientifiche (di ricerca e di testimonianza) e riconosciute dalla sua comunità professionale.